I miei 30 dischi preferiti del 2020 in libera associazione di idee, suoni e visioni. Tra album concepiti in pieno lockdown, gli slanci vitali e lo sconforto, il blues, roots e routes, il sacro (art) pop, il reggaeton e le sue mutazioni; da disco a disco, ma senza la disco – e i concerti. Dischi per il corpo, per la mente e grazia materna per il mondo che verrà.
1. Fiona Apple – Fetch the Bolt Cutters
Soffitti che ti schiacciano a terra, mura che si fanno strette, amori tossici e relazioni violente; è stato l’anno in cui tutti abbiamo sperimentato la misura in cui le mura domestiche possano diventare una vera e propria prigione. Fiona Apple prende il tronchese e trancia l’incantesimo, esasperando la formula vincente del precedente The Idler Wheel. Un turbine di potenza vocale tra rocambolesche fughe di piano e un forte gusto per le sezioni ritmiche; canzoni blues per il nuovo decennio, di profondo incoraggiamento, da intonare dall’alba al tramonto.
2. Charli XCX – how i’m feeling now
Concepito e realizzato in quarantena, con tanto di sessioni Zoom con i fan, how i’m feeling now è uno dei dischi più rappresentativi del 2020, nonché il miglior disco di Charli XCX. In sinergia con i collaboratori di lunga data e nuovi producer, è nuova socialità che si fa musica; è pop tagliato con le avanguardie elettroniche che incontra la basicità dei pop consumer e l’acidità dei clubber, secondo uno stile piuttosto unico e consolidato. Tra gli slanci vitali e il puro sconforto da lockdown.
3. Perfume Genius – Set My Heart On Fire Immediately
Perfume Genius ritorna sulla tavolozza del precedente No Shape tra baroque pop e rock’n’roll e ne espande le sfumature. C’è ancora una queerification di certe roots americane e non solo; a testimoniarlo anche tutto l’immaginario che accompagna il disco: dalla copertina alla videografia di Describe e On the Floor, due dei brani migliori del lotto. Un disco sul corpo, quello riflesso nello specchio e l’altro, tra accettazione, desiderio e rifiuto; tra coccole lunari e sudicie lenzuola di un rimorchio.
4. Moses Sumney – Græ
Doppio album uscito in due parti, Græ è un lungo viaggio di esplorazione tra il bianco e il nero, in una profonda riflessione sul nostro corpo e il ruolo che gioca come motore del mondo delle relazioni e malauguratamente, nell’anno del distanziamento sociale, sull’isolamento. Ma è in realtà un disco d’impossibile catalogazione: art pop dalla natura liquida tra momenti di leggiadro lirismo e altri di vibrante avanguardia, il tutto tenuto insieme da una voce irreale e una creatura magica capitata alla musica.
5. Eartheater – Phoenix: Flames Are Dew Upon My Skin
Eartheater abbandona le pulsioni avant a tutti i costi, per un geologico folk da camera, tra magmatici lapilli d’elettronica, traumi tellurici e scottature, che solo un periodo d’isolamento può lenire. Non fatevi trarre in inganno da quelle fiamme di copertina e lasciatevi piuttosto contagiare dalla bellezza di Below the Clavicle, How to Fight e la splendida Volcano: il mio singolo preferito dell’anno, che funzionerebbe anche in una prossima pandemia senza corrente elettrica.
6. Protomartyr – Ultimate Success Today
Insieme ai Fontaines D.C., i Protomartyr sono stati tra gli alfieri del post punk dell’anno. Ultimate Success Today è il loro disco migliore, ricco di indimenticabili riff, spiragli jazz e testi sermonici, in una visione piuttosto cupa del mondo; esemplare in tal senso uno dei miei singoli preferiti dell’anno, Processed by the Boys: tra riferimenti pandemici e quadri sulle disparità sociali accentuate, un riff irresistibile e un videoclip magnetico*.
* Remake di uno spezzone di un programma televisivo brasiliano virale all’insegna del The show must go on; Next time will be different, canta Joe Casey, non distante da certi slogan invecchiati troppo presto.
7. Elysia Crampton – ORCORARA2010
L’ultimo disco di Elysia Crampton testimonia e racchiude un’installazione commissionata dal Centro d’arte contemporanea di Ginevra; un sentiero impervio, come d’altronde può essere un racconto visionario sui traumi intergenerazionali – le oppressioni, di matrice ideologica e religiosa, perpetrate verso le minoranze. Tematiche care all’artista amerindia, accolte in un disco ambizioso e trascendentale: ancestrale e sperimentale, esplosivo, tra elettronica ambient, minimalismo ed elementi del folklore latino.
8. KMRU – Peel
Se il 2020 per molti è stato l’anno della riscoperta dell’ambient e dintorni, tra loop e droni per calmare corpo e mente, tra gli artisti emergenti che hanno lasciato il segno trova spazio sicuramente KMRU. Nome d’arte di Joseph Kamuru, artista kenyota assai prolifico quest’anno, tra ambient, drone e field recordings, per una discografia culminata, per il sottoscritto, con Peel. Un’ora abbondante in cui galleggiare e che, ascolto dopo ascolto, rivela ogni sua delicata variazione, impercettibile dettaglio e sfumatura.
9. Lorenzo Senni – Scatto Matto
La trance pointillistic di Lorenzo Senni in perfetto dialogo con la copertina di John Divola: tra i segni del vandalismo urgente e l’estatico tramonto pop; il lavoro fotografico dell’artista omaggiato anche nella performance Vandalize Music all’interno dell’edizione in streaming del Club to Club 2020 – pietra tombale sulla situazione precaria della musica di quest’anno. Tra momenti più estatici e altri più introspettivi, come Canone Infinito, originariamente pensata per il reparto di terapia intensiva di Bergamo (!), ma senza mai smettere di pensare in grande, THINK BIG appunto.
10. Jessie Ware – What’s Your Pleasure?
Nell’anno in cui il mondo della musica dal vivo e di un certo intendere la dimensione da club si è fermato, è stato un trionfo di revival disco. Jessie Ware si sfila il grembiule e sforna il disco che tutti, in fondo, abbiamo sempre desiderato, dove le sue sofisticate sfumature soul incontrano una riuscita devozione alla pista da ballo; e gli antipasti presentati gli scorsi anni convivono con le nuove portate, come Spotlight, tra i miei singoli preferiti dell’anno, e la title track.
Dua Lipa – Future Nostalgia
Tra i migliori dischi mainstream dell’anno, una manciata di singoli per la radio e per il club, senza lungaggini pensate per macinare ascolti sui servizi di streaming. È quasi tutto al posto giusto: canzoni, copertina, evento streaming e video, a partire da quello di Physical diretto dai CANADA*.
* A proposito dei videoclip del collettivo CANADA, permettetemi, cari lettori, una parentesi di videomusica: il loro TKN per Rosalía e Travis Scott è uno dei videoclip più belli dell’anno; in un ideale podio insieme a Sad Day di FKA twigs diretto da Hiro Murai.
Róisín Murphy – Róisín Machine
From disco to disco. Se la proposta disco di Kylie Minogue ci è piaciuta, a stupire tutti è forse Róisín Murphy, che porta a compimento un progetto in cantiere da anni: quando hai una scatola con rotelle, bulloni di tutte le forme e dimensioni, puoi tirare fuori una macchina così! Cheapeu.
Bad Bunny – YHLQMDLG / El último tour del mundo
Bad Bunny è il reggaeton universale. Dei suoi dischi del 2020, YHLQMDLG è un trionfo di ottimi singoli, come Yo Perreo Sola – uno dei videoclip top dell’anno – e il sound system definitivo di Safaera; ma è El último tour del mundo che mi ha conquistato: conciso, coeso e splendidamente candito da pop rock latino.
DJ Python – Mas Amable
Se Bad Bunny riesce a travalicare i confini del genere, c’è chi ama trasfigurare la materia reggaeton – quella mina mutante di Arca – e c’è chi invece la porta e lambire suggestive rive ambient e deep, come DJ Pyhton. Mas Amable è un altro flusso sonoro irrinunciabile del 2020.
Kali Uchis – Sin miedo (del amor y otros demonios) ∞
Era da qualche tempo che Kali Uchis andava dicendo che avrebbe fatto un disco in spagnolo – e alla fine è arrivato. E si è rivelato anche una sorpresa; certo, non è il seguito del caleidoscopico Isolation, ma un bel disco pop latino dalle striature reggaeton, tra soliloqui di pene e d’amor perduto.
Zebra Katz – Less Is Moor
Le sonorità hip house sono uscite fuori dai radar, così come Zebra Katz di cui avevamo perso completamente le tracce. Less Is Moor allora è una vera e propria sorpresa: provocazione sonora, verbale e sessuale, tra drum and bass e industrial più abrasivo, votato alla pista da ballo e alla ballroom.
The Weeknd – After Hours
Il disco migliore di Abel Tesfaye. Tra un impeccabile immaginario thriller e orrorifico – il bellissimo videoclip di Too Late, i fantasmi del passato tornano ad infestare il presente, tra le separazioni e i demoni accecanti degli eccessi e abusi. Ci sarà redenzione dopo questo bagno di sensi di colpa – e di sangue?
Poppy – I Disagre
Sotto una colata heavy metal e bordate industrial, una squisitezza tutta pop, di quei ritornelli solari che si appiccicano addosso. Del resto la stessa Poppy ci presenta la sua musica come post genere; a noi non resta che crederle e farci contagiare da questo gioiellino di cangiante pop nerino.
Popolous – W
Il producer salentino Andrea Mangia ha fatto il disco perfetto da mettere su per l’aperitivo – finché si è potuto. W is for Women, disco tutto al femminile in un viaggio dal Brasile al Giappone, passando per l’Italia, dove spiccano Flores de Mar e Roma, con Matilde Davoli e Lucia Manca.
Laura Marling – Song for Our Daughter
Laura Marling è una cantautrice in perenne stato di grazia, anche nel suo disco minore, intimo e materno; spogliato dal viaggio e dalle contaminazioni dei dischi precedenti, è un album di dieci canzoni di cantautorato gentile per i nostri figli, o meglio, per il mondo che verrà.
Bob Dylan – Rough and Rowdy Ways
Salutato da più parti come il suo disco migliore da parecchi anni a questa parte, Rough and Rowdy Ways aggiunge un piccolo tassello nella mitologia dylaniana; penna sempre lucida che ci racconta attraverso l’eredità storica e traccia nuove rotte da navigare: la bellissima Key West (Philosopher Pirate).
Actress – Karma & Desire
“House isn’t so much a sound as a situation”. Possa questa citazione di DJ Sprinkles servire da bussola per avventurarsi dentro questo alienante lavoro di Actress; tra outsider house e disperati bozzetti di piano, in un disco che fa dell’estemporaneo la sua croce e delizia. Io sono deliziato.
Beatrice Dillon – Workaround
Il mio 2020 in musica è cominciato con questo bellissimo esordio di Beatrice Dillon per l’etichetta PAN. Affascinante incontro tra una dimensione acustica di collaboratori e il minimalismo glaciale della IDM fissata a 150 bpm; sperimentando, ma senza mai perdere ritmo e intellegibilità.
Yung Lean – Starz
Nel panorama rap mi sono piaciuti i dischi di Aesop Rock, Denzel Curry e Kenny Beats e il quarto Run the Jewels, ma il mio preferito è finito per diventare quello del sad boy Yung Lean: probabilmente il migliore uscito nella scena dei cloud rapper svedesi, nonché per l’etichetta YEAR0001.
Speranza – L’ultimo a morire
Nella scena italiana big up per il ritorno di Dargen e l’Infernum di Claver Gold e Murubutu, ma a sorprendermi è stato l’esordio del rapper italo-francese Speranza. Forte personalità e abuso di fisarmonica, da Fendt Caravan alle ballate che non ti aspetti – Iris – e puro divertissement – Russki po russki.
Colapesce e Dimartino – I Mortali
I Mortali al prossimo Festival di Sanremo! C’è chi dice che ci abbiamo già provato nel 2020, magari proprio con la hit mancata di Rosa e Olindo: singolo italiano dell’anno, pompa magna di retro-avanguardia e gemma decadente di un disco tra la scuola dei cantautori e la contemporaneità.
Klô Pelgag – Notre-Dame-des-Sept-Douleurs
Il Canada è grande esportatore di baroque pop e quest’anno il premio va a Klô Pelgag, con un pensiero a Owen Pallett. Ora poetico e ora melanconico, Notre-Dame-des-Sept-Douleurs è un disco che fa un melodramma a partire dal titolo, di canzoni tra il solco art pop e la tradizione della chanson.
Yves Tumor – Heaven to a Tortured Mind
Yves Tumor voleva fare la rockstar. Lo sa chi lo ha visto dal vivo almeno una volta e chi ha amato il bellissimo Safe in the Hands of Love. Il suo successore è abbastanza adagiato, non meno viscerale, forse meno coraggioso, ma contiene uno dei singoli rock dell’anno: Kerosene!
Sega Bodega – Salvador
Membro dell’etichetta NUXXE – annata niente male per Oklou e Shygirl – è l’imperfetto esempio di un producer (cfr. Zebra Katz) che gioca a fare la popstar, capace anche di irresistibili pezzi come U Got the Fever, ahimè nell’anno di una pandemia, Salv Goes to Hollywod e Smell of the Rubber.
Meitei / 冥丁 – Kofū / 古風
Terzo capitolo di una trilogia che assembla e rievoca aspetti della cultura Giapponese, presentato proprio come “satire of old japanese aestethic”, è impossibile resistere al fascino di questo disco plunderphonics tra ambient e hip hop. Packaging stupendo. Ogni tanto ricordiamoci di regalare la musica!