Eccoci anche quest’anno con il consueto appuntamento con i miei dischi preferiti dell’anno: tra epico folk da camera e le sue trasfigurazioni, meditazioni jazz, isole art pop, soul arioso e metropolitano, mitologie pop, rap scacciafiga, polveri ambient, house come luogo sicuro di accettazione, brodi primordiali di catarsi e mantra tellurici di guarigione per liberarci dalle nostre prigioni. Queste e tante altre storie si fanno musica, spero possiate trovare qualcosa di cui far tesoro e in cui perdervi nell’ascolto.
1. Desire Marea – On the Romance of Being
La prorompente forza del primo singolo – Be Free – doveva farci intuire come l’artista sudafricano Desire Marea stesse espandendo le sue sonorità distaccandosi dalle originarie movenze da club. Fresco di un percorso sciamanico, pare che i suoi antenati gli abbiano consigliato di forgiare le sue visioni erotico romantiche con una band di 13 elementi; tra spiritual jazz, prog, mantra anglofili e zulu: il mio disco dell’anno sprigiona armonie telluriche di guarigione per liberarci dalle nostre prigioni.
2. Kelela – Raven
Il secondo disco di Kelela riprende, già dalla programmatica copertina, le sonorità liquide del precedente mixtape Aquaphoria per un disco in cui la forma R&B si scioglie in un medium acquatico di blackness, tra rive ambient – come l’iniziale Washed Away – e increspature da club – la banger Contact o l’esemplare title track. Scorre, evapora, scroscia e rompe con forza gli argini di ogni genere; non tanto una collezione di canzoni, bensì uno spazio d’ascolto, dove galleggiare in un brodo primordiale catartico.
3. Daniela Pes – Spira
Spira è il disco italiano dell’anno. Indubbiamente debitore del progetto bello, ambizioso eppur verboso che fu IRA di IOSONOUNCANE, che dalle stesse sessioni vede la luce. Le spire di Daniela Pes, come accade per i dischi migliori di folk odierno, sono in grado di trasfigurare la tradizione in un contemporaneo presente, qui con una catarsi elettronica, eppur fuori dal tempo, grazie anche alla neolingua che evoca ora il sardo ora l’italiano e che riempie la stanza di un’esperienza senza confini.
4. Sílvia Pérez Cruz – Toda la vida, un día
Per l’artista catalana, come per la collega d’oltreoceano Natalia Lafourcade lo scorso anno – qui in Mi última canción triste, l’ultimo disco segna il punto di arrivo di un viaggio tra presente e memoria. Un album davvero ambizioso, suddiviso in cinque movimenti, dove la tradizione ispanofona abbraccia un epico folk da camera, senza rinunciare a elementi sonori contemporanei. Misurarsi con i grandi classici e farli propri, porta al compimento di grandi dischi, che sembrano racchiudere in un cerchio la vita.
5. Jason Moran – From the Dancehall to the Battlefield
A proposito di memoria, il jazzista Jason Moran recupera la figura di James Reese Europe riproponendo classici del suo repertorio e inediti, in omaggio e meditazione su una figura seminale delle big band jazz; la grande forza evocativa del disco è in grado di intrattenere su più livelli, dalla partita di burraco con gli amici al tè delle cinque, proprio come recita l‘iniziale manifesto che ci introduce all’ascolto e ci racconta la figura di James: “From to the Dance Hall to the Battlefield, and back home to you”.
6. Caroline Polachek – Desire, I Want to Turn Into You
Per quanto sia molto legato al precedente Pang, con il suo secondo disco a nome Caroline Polachek l’artista perfeziona la sua formula art pop. Il desiderio insaziabile di ricerca di suoni e di stili, tra sonorità più avant, a spasso per i club, retaggi barocchi, tripudi bucolici, è tenuto insieme in un’isola di magia – basti pensare alla mediterranea Sunset o alle cornamuse di Blood and Butter. Tra gli altri brani da menzionare l’omaggio alla compianta SOPHIE – I Believe – e la conclusiva Billions.
7. Sampha – Lahai
Secondo disco per l’artista inglese, a sei anni dal precedente Process. La sua militanza, sin da prima dell’esordio, nella scena elettronica inglese e poi in quella urban oltreoceano è stata sicuramente preziosa per restituire una personale vocazione soul; libera dagli stilemi di genere, l’uso ora della voce, ora del piano, sono contaminati da un fare jazz e un’attitudine elettronica in un sound arioso e metropolitano. Da dove iniziare per assaporare Sampha Lahai Sisay? Dal mio singolo preferito dell’anno, Spirit 2.0.
8. Lana Del Rey – Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd.
Lana del Rey si conferma una delle migliori cantautrici americane, a mio avviso sottovalutata. Sì, poteva durare meno, ma che penna, che immaginario vivido! Sicuramente grazie anche a brani come l’iniziale The Grants, la title track e uno dei singoli dell’anno A&W, per nuovo canzoniere che rafforza la sua mitologia pop e può considerarsi riuscito nelle intenzioni, dato il nucleo tematico del disco: un focolare di memoria, affetti ed eredità, con l’implicito intento di consegnarsi alla storia della musica.
9. billy woods & Kenny Segal – Maps
Se impostate le coordinate per il miglior rapper degli ultimi anni, il puntatore vi porta su billy woods: tra i nuovi protagonisti del consciuos hip hop della East Coast, grazie anche al progetto insieme a Elucid a nome Armand Hammer. Maps, realizzato con un ritrovato Kenny Segal, dopo Hidden Places del 2019, è il disco perfetto per avvicinarsi al suo mondo, è infatti il suo più immediato e quello che ha raccolto più consensi, anche se per chi scrive il suo capolavoro resta ancora Aethiopes del 2022.
10. JPEGMAFIA x Danny Brown – Scaring the Hoes
Due schegge impazzite della scena rap statunitense collaborano in un disco che, come afferma lo stesso JPEGMAFIA, è pensato come una sessione realizzata negli anni ’90 con con l’ausilio di un Roland SP-404 e del suo rapper preferito, Danny Brown – come dargli torto: Atrocity Exhibition è uno dei dischi rap degli anni dieci. La forza dirompente dei due è probabilmente uno degli ascolti più strambi dell’anno, qualcuno troverà i due scacciafiga insopportabili, altri si lasceranno contagiare dalla loro follia.
11. Sofia Kourtesis – Madres
Dedicato alla madre, sopravvissuta alla malattia, il debutto di Sofia Kourtesis è un viaggio intriso di speranza, che parte dal vivo ricordo della sua terra natale, il Perù, e arriva alla Berlino di adozione. Madres, tra battute per minuto deep house, reminiscenze afro e latine, incarna la migliore tradizione della musica house come luogo sicuro dove celebrare la vita e sentirsi accettati, soprattutto quando la propria identità è minacciata da una cultura eteropatriarcale. How Music Makes You Feel Better, no?
12. Sufjan Stevens – Javelin
Siamo tutti rimasti abbastanza increduli nell’apprendere da un lato la morte del compagno, al quale il disco è dedicato – con relativo coming out ufficiale – e dall’altro la malattia che ha colpito lo stesso Sufjan Stevens. Detto ciò, non ci siamo lasciati imbonire nel giudizio, perché Javelin è il miglior disco del cantautore dai tempi di Carrie & Lowell, nonché un vero e proprio compendio della sua proposta, sia dal punto di vista musicale, che tematico: tra amore, perdite, relazioni – insomma, la vita.
13. Laurel Halo – Atlas
Laurel Halo è una delle figure più spiazzanti della scena elettronica. Se negli anni ha lambito diversi territori elettronici, con il suo ultimo disco, Atlas, le polveri della sua musica si fanno più corpose in uno stratificato disco tra ambient e modern classical, che al primo ascolto lascia disorientati per la sua inafferrabilità; ma a poco a poco, le particelle in sospensione si fanno materia e fanno brillare la visione della producer statunitense, in un disco in cui ci si torna a cercare, a tarda notte, come in un atlante esistenziale.
14. James Blake – Playing Robots Into Heaven
In tanti avevamo espresso il desiderio di tornare a sentire un po’ di quel James Blake degli esordi e con Playing Robots Into Heaven siamo stati accontentati. La rinnovata vivacità da producer del sir inglese, ormai di stanza a LA, brilla lungo le 11 tracce, dove ovviamente non manca l’elemento cantautorale, in una ritrovata sintesi di un sound che è stato seminale negli ultimi dieci anni o poco più. Tra le tracce che valgono il viaggio, vale sicuramente la pena citare Loading, Tell Me e I Want You to Know.
15. Brigan – Liburia Trip
Liburia e trip. Un lessico e due parole così apparentemente distanti, ma che ben delineano il linguaggio sonoro dei Brigan, trio campano attivo dal 2009. Un disco folk soffiato da crismi elettronici, che nasce da quelle liburia – terre di lavoro – ma va dipartendosi da un territorio così specifico, il casertano, per abbracciare il suolo del mondo intero. Se cercate un perfetto abbinamento, potreste pensare alle viti maritate, una bottiglia di Asprinio, e perché no, una pizza farcita con l’oro bianco, la bufala.
16. Carly Rae Jepsen – The Loveliest Time
Per molti CRJ rimarrà la meteora di Call Me Maybe, eppure l’artista canadese negli anni, pur senza raggiungere le vette delle classifiche, ha dimostrato una crescente maturità e di aver la stoffa per il pop. Pensato inizialmente come raccolta di b-sides del disco precedente, The Loneliest Time, si è rivelato invece uno dei suoi più belli dai tempi di E·MO·TION del 2015. Catchy, ricco di riff, roba francese e ritornelli da solleone, è stato senza dubbio il mio tormentone estivo, like a Psichedelic Switch.
17. EABS Meets Jaubi – In Search of a Better Tomorrow
Torniamo sui territori jazz per l’affascinante incontro tra il collettivo polacco EABS e i pakistani Jaubi, già incontrati tra le righe di Nafs at Peace, dei secondi, uscito nel 2021. Un filo che unisce le città di Wroclaw e Lahore a suon di jazz, tra invocazioni spiritual, raga indostani e reminiscenze hip hop. In Search of a Better Tomorrow è un susseguirsi di groove che invocano un futuro migliore e contiene anche una delle più intense preghiere di pace dell’anno, Raise Your Hearts, Drop Your Guns.
18. Mitski – The Land Is Inhospitable and So Are We
Dopo le sbornie eigthies del precedente Laurel Hell, Mitski torna con un più classico canzoniere di songwriting e di americana, regalandoci alcune perle della sua carriera come Heaven e Star. L’artista non perde le speranze e scava ancora a fondo dell’anima del genere umano; per rendere l’idea tematica, mi sento di citare un verso da uno dei libri che mi è piaciuto quest’anno, Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone: “Ogni cosa che ho visto di te, te la restituisco amata”.
19. La Niña – Vanitas
Tra le sorprese italiane dell’anno possiamo anche vantare l’esordio de La Niña: tra canzone neomelodica, R&B e reggaeton in una riuscita ibridazione di sonorità; Napoli si conferma così, dopo l’esemplare Liberato, una grande fucina del nuovo urban. Possiamo pensare a Vanitas come un EP, dato il breve viaggio di poco più di venti minuti in otto tracce, ma è un buon biglietto da visita di un’artista su cui puntare per il futuro. Nel frattempo, non resta che perdersi nel suo studiolo ascoltando HARAKIRI.
20. HiTech – DÉTWAT
DÉTWAT è uno dei dischi di area ghettotech più belli di recente memoria, con cui sono andato sculettando per buona parte dell’estate, quel piallamento sonoro di cui si necessita ogni tanto dopo una sfiancante giornata di lavoro. Il trio di Detroit firma una bella mezz’ora tra ghettotech, juke e footwork, fatta con i crismi; purtroppo al momento non disponibile sulle principali piattaforme di streaming per distacco dalla FXHE Records di Omar S, ma hanno promesso tornerà disponibile insieme a nuova musica.
Also, my 20 fav songs of the year:
- Sampha – Spirit 2.0
- Troye Sivan – Rush
- Desire Marea – Be Free
- Daniela Pes – Carme
- Lana Del Rey – A&W
- Tinashe – Gravity
- COLAPESCEDIMARTINO – La luce che sfiora di taglio la spiaggia mise tutti d’accordo
- Madame – Il bene nel male
- Yaeji – For Granted
- Olivia Rodrigo – Vampire
- Carly Rae Jepsen – Psichedelic Switch
- hemlocke springs – Sever the Blight
- Big Thief – Vampire Empire
- Roisin Murphy – The Universe
- Sufjan Stevens – Will Anybody Ever Love Me?
- Caroline Polachek – Blood and Butter
- Jessie Ware – Free Yourself
- Eartheater – Crushing
- Mitski – Star
- Kelela – Contact